Revocatoria di rimesse su conto corrente: irrilevante la natura solutoria o ripristinatoria (Cass., 9 gennaio 2019, n. 277)

di Morena Pirollo.

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Con la sentenza depositata il 9 gennaio scorso la Cassazione ha affrontato il tema della persistente rilevanza, nel quadro degli interventi sulla procedura fallimentare introdotti con D.L. n. 35/2005, conv. in L. n. 80/2005, della tradizionale distinzione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista, mai affrontato dalla stessa Suprema Corte a parte che in un solo obiter dictum, nella pronuncia di Cass. 7 ottobre 2010, n. 20834, ove si rileva che la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse bancarie “rimuove dallo scenario esegetico il distinguo tra natura solutoria e ripristinatoria dei versamenti affluiti sul conto corrente“.

Secondo la Corte il distinguo operato dalla giurisprudenza per circa quarant’anni (a partire dai fondamentali arresti di Cass. 11.12.1978, n. 5836 e Cass. 30.1.1980, n. 709), ai fini della revocatoria, tra rimesse solutorie, afferenti a conti “scoperti”, non assistiti da apertura di credito, o con saldo eccedente l’affidamento concesso, ritenute revocabili, da quelle ripristinatorie, riguardanti i conti solo “passivi”, in cui la rimessa vale a ripinanare una esposizione debitoria del cliente che si colloca al di sotto del tetto di finanziamento accordato al correntista, era dettato dal riferimento alla precedente versione dell’art. 67 L. Fall., che non contenenva alcuna specifica previsione per la revocatoria dei versamenti del correntista, poi fallito, sul conto corrente bancario.

Tale distinguo, a detta del Giudice di legittimità, sarebbe ora superato dall’intervento legislativo del 2005 che, rimodulando l’art. 67 L. Fall., prevede, al comma 3, lett. b), non essere soggette a revocatoria “le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca“.

Le ragioni a sostegno della soluzione anzidetta sarebbero plurime. Anzitutto, l’argomento di carattere testuale, atteso che se l’art. 67 L. Fall. concernesse, al suo terzo comma, tutti i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, non si comprenderebbe la ragione per la quale, poi, alla lett. g) del medesimo articolo il Legislatore avrebbe ritenuto di disciplinare un criterio diverso e ulteriore. Il Legislatore si sarebbe, poi, servito del termine “esposizione debitoria”, designante un perimetro più ampio di quello delimitato dal concetto di debito liquido ed esigibile, nonché compatibile con il concetto di conto scoperto ovvero passivo; osserva la Corte, peraltro, che sarebbe riduttivo limitare il concetto di rimesse al ristretto significato di pagamenti di debiti scaduti. Confermerebbe, in ultimo, tale interpretazione anche l’inquadramento della norma sotto il profilo dell’esegesi, storicamente orientata, e della ratio legis: il Legislatore del 2005, chiaramente avvertito delle criticità e degli effetti distorsivi generati dalla giurisprudenza formatasi sul vecchio testo dell’art. 67 L. Fall., ha inteso dettare una disciplina delle rimesse bancarie che prescinde dalla finalità ripristinatoria o solutoria delle stesse guardando alla sola natura consistente e durevole della riduzione dell’esposizione debitoria.

Il fuoco della disciplina della revocatoria delle rimesse è, così, spostato dal dato formale dell’essere il versamento affluito o meno su di un conto affidato a quello sostanziale, da verificare in concreto, “del prodursi o del non prodursi, di una neutralizzazione degli effetti della rimessa in ragione di successive operazioni da conteggiarsi a debito dello stesso cliente“. Si tratta, così, di accertare, caso per caso, che il versamento sia stato riassorbito da successive operazioni di addebito, con un riutilizzo della somma rispondente alle finalità cui assolve il servizio di cassa che il conto corrente bancario svolge e non già di verificare se la rimessa abbia o meno ripianato un’esposizione debitoria contenuta nei limiti dell’affidamento concesso.

La Cassazione si è soffermata anche sull’art. 70, co. 3, L. Fall., che, secondo l’esemplare arresto, rappresenterebbe unicamente il limite oggettivo massimo in astratto revocabile, costituito dal differenziale tra il massimo scoperto e l’ammontare residuo della pretesa creditoria alla data di apertura della procedura concorsuale. Questo criterio di calcolo tuttavia, ha precisato la Corte, non è necessariamente indicativo dell’importo che, in concreto, va revocato ai sensi dell’art. 67, co.2, let. b), L. Fall., la cui determinazione, infatti, può essere influenzata da accrediti diversi, intervenuti sul conto corrente (i.e. rimesse effettuate da un terzo, utilizzatore di somme proprie e che non abbia proposto rivalsa nei confronti del fallito).

In ultimo, la Corte ha osservato che l’ordine di registrazione contabile, risultante dall’estratto conto, potrebbe non rispecchiare quello reale e, quindi, nel caso il cui il Fallimento richieda la revoca di rimesse in relazione al saldo infragiornaliero e non al saldo della giornata, è onerato della prova della natura solutoria dei singoli movimenti, con tale intendendosi l’effettiva cronologia degli stessi; in mancanza di detta prova, si considerano effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti.

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